sabato 7 dicembre 2013

Sul Natale di Giovanni Allevi

Primo post un po' fuori tema (ma forse non del tutto) perché il Natale è di tutti. Con la fastidiosa conseguenza che tutti ci si infilano, ovviamente a proprio vantaggio. 
Questa è la volta di Giovanni Allevi, che decide di deliziarci con un nuovo capolavoro, Christmas for you. L'idea è quella di riproporre i classici natalizi in stile alleviano (qualsiasi cosa voglia dire), idea non proprio originale ma tant'è. E la presentazione ha proprio tutto dello stile del nostro: l'aneddoto di vita vissuta su cui si innesta il lampo di genio creativo, il riferimento a pezzi grossi come Brahms e Charpentier per impressionarci e per non abbandonare la discussa etichetta di classica, la sparata sulla contaminazione geniale, qui addirittura doppia, sul rock progressive e sull'hip hop. Ora, se sull' hip hop non mi pronuncio, mi piacerebbe veder partire querele per diffamazione da parte degli Yes o di Peter Hammill. Ma non è questo il punto. 
Premesso che chi scrive non vuole ergersi a difensore della musica colta, non avendone i titoli, e che ognuno è libero di produrre e apprezzare la musica che preferisce, c'è qualcosa nell'operazione - Allevi di estremamente fastidioso. Non si tratta tanto della vecchia diatriba "è classica o pop", ormai datata. E' evidente infatti che esiste un mercato di ascoltatori che vogliono darsi un tono raccontando di ascoltare classica, ma che non hanno la pazienza, o le capacità, di mettersi a conoscere realmente questo mondo per capire, e che quindi ricorrono al surrogato. A pensarci bene è lo stesso fenomeno che avviene con il rock per fighetti, ma anche con un certo giornalismo finto-impegnato. E il meccanismo per cui si va a un concerto di Allevi in un teatro è lo stesso per cui quarantenni panzoni vanno a giocare a calcetto mettendo la maglia di Messi o Cristiano Ronaldo, magari imitandone l'esultanza in caso di gol.
Chi frequenta la scuola ha ben presente il meccanismo, inesorabile, della semplificazione. Della prassi secondo cui bisogna sempre cercare di "vendere" le discipline, secondo luoghi comuni come "leggere deve essere un piacere" o "la matematica può essere divertente". Leggere è sì un piacere, ma è un piacere che si conquista con l'esercizio, con la fatica e magari anche con la frustrazione di fronte alla difficoltà o alla noia. Se Beethoven può apparire ostico ad un ragazzo, la colpa non è di Beethoven che non ha ritmo, e se Balzac sembra più noioso di Harry Potter, cari ragazzi, sappiate che è tramite un percorso faticoso che si può sperare di arrivare in alto. La scuola ha tanti limiti in questo, ma una cultura diffusa che suggerisce la facilità, come quella di chi sostiene di comporre musica rivoluzionaria partendo dalla melodia di un peluche, non aiuta di certo. 
In conclusione, osservando bene la tracklist dell'album, manca qualcosa:  la canzone del Grinch. Possa questo simpatico animaletto rubare il Natale, o quantomeno fare sparire dal nostro sguardo, e dalle nostre orecchie, questo scempio. E' questo il mio augurio per Natale e per l'anno che verrà.    

martedì 3 dicembre 2013

Perché è così difficile?

C'è una retorica che aleggia sul mondo della scuola, che lamenta, probabilmente da sempre, la sua staticità e una apparentemente inevitabile incapacità nel modificarsi. I protagonisti, docenti e dirigenti su tutti, sembrano i proverbiali milioni di commissari tecnici nei giorni dei mondiali, tutti con la soluzione perfetta in tasca. Eppure, tutto resta così com'è.
Un primo livello del problema è, per così dire, psicologico. L'insegnante medio, si perdoni la semplificazione, è colto (checché se ne dica almeno una laurea l'ha presa) ed è abituato a lavorare in grande autonomia (con tutte le conseguenze anche negative del caso). E' abituato nel lavoro quotidiano, più di qualsiasi altro professionista, a prendere decisioni rapide, talvolta a modificare i suoi schemi in corso d'opera per adattarsi al suo piccolo uditorio di adolescenti. Difficile quindi è convincerlo ad accettare imposizioni dall'alto, specie se vengono da burocrati rappresentanti della mastodontica macchina ministeriale, e altrettanto difficile è vederlo alle prese con riflessioni "di sistema". A interpellare gli insegnanti insomma, approccio a parole seguito da tutti i ministri e dai politici in campagna elettorale (ultimo in ordine di tempo Renzi), si fa bella figura ma si rischia di trovarsi di fronte a tante idee quante sono le teste in campo, e spesso non di così ampio respiro. 
Altro livello del problema è quello amministrativo. Assistiamo qui al perpetrarsi di un altro luogo comune: quello dei ministri, di destra e di sinistra (e persino i tecnici!), incompetenti e animati dal comune disegno di distruggere la scuola. Così, senza ragione. Dall'altro lato invece si tuona contro l'azione sindacale, nemica di una fumosa idea di merito, dai connotati non facilmente identificabili. E' chiaro che chi non si accontenti di facili slogan deve andare un po' oltre. 
Nell'amministrazione scolastica, e prima ancora nel dibattito culturale sul tema, sono rimasti esclusi per anni elementi quali l'introduzione del digitale, attivato frettolosamente e goffamente negli ultimi anni, la revisione dei programmi, la formazione e il reclutamento dei docenti. Questioni cruciali e qualitativamente pregnanti quali il maestro unico e la revisione dei quadri orari negli anni scorsi, e la possibilità di uscire dalla scuola un anno prima oggi, non sono affrontate nell'ottica di obiettivi umani e sociali, ma nell'ambito della mera amministrazione: quanto si risparmia, quanti posti di lavoro si perdono. Tutta colpa di QUESTA politica e QUESTI sindacati? In effetti, visti i curriculum di alcuni...
E se invece il problema fosse più ampio? Se a fallire non fossero state le scelte di alcuni ma tutto il sistema? Se il problema fosse nell'idea stessa di una dialettica basata sui rapporti di forza? Siamo sicuri che da un modello in cui ministero e sindacati fanno periodicamente a cazzotti esca necessariamente la sintesi migliore, o piuttosto uscirà inevitabilmente un mercato delle vacche sul numero di assunzioni? 
E comunque nella tanto decantata (o discussa) concertazione ci sono assenze numerose e pesanti: gli studenti e le famiglie, i contribuenti che finanziano la baracca, chi studia per diventare docente con competenza e passione. Vogliamo farli sedere al tavolo? O vogliamo finalmente avere il coraggio di dare la responsabilità a qualcuno di decidere per il bene di tutti?



sabato 30 novembre 2013

Purché non sia solo una questione di ore...

Il Corriere della Sera riprende oggi,  nel suo meritorio spazio dedicato alla scuola, il tema dell'insegnamento della Geografia nelle scuole italiane. Stanti l'importanza della questione e l'equilibrio mostrato, non si può non notare come, ancora una volta, il primo accento sia posto sulla problematica dell'orario.
Ora, intendiamoci, l'insegnamento richiede tempo e frequentazione, che non possono essere sostituiti da ipotetici richiami alla qualità e a misteriose metodologie. Così come la scelta di far cassa risparmiando su alcune discipline piuttosto che su altre rende bene l'idea di una considerazione non proprio elevata della geografia. A guardare con più attenzione, però, il problema va cercato anche, e soprattutto, altrove.
Per chi non fosse addentro alla questione, stiamo parlando di alcuni anni fa, all'epoca del dicastero Gelmini. I docenti hanno trovato in regalo, insieme al ridimensionamento orario, anche le nuove indicazioni nazionali, a sostituire i vecchi programmi. Secondo una ratio, a giudizio di chi scrive del tutto condivisibile, e che ha riguardato tutte le discipline, queste indicazioni hanno un carattere fortemente "aperto", lasciando ampi spazi all'iniziativa e al lavoro del docente. E qui iniziano i guai. Se infatti negli istituti tecnici il problema è solo "quantitativo", consiste cioè in una riduzione di orario, diverso è il caso dei licei. Secondo le rigide tabelle delle classi di concorso nei bienni dei percorsi liceali l'insegnamento della geografia è accorpato a quello della storia in un'unica disciplina, ed è affidato ai docenti di lettere, che per formazione sono portati, salvo qualche raro caso di mosca bianca che agisce di propria iniziativa, ad avere una formazione sbilanciata verso le discipline letterarie e la storia, che finiscono con l'essere privilegiate. E il risultato, per chi ha voglia di fare una ricognizione in tal senso, è ben visibile nei libri di testo: la disciplina che una volta si chiamava geografia è ridotta ad appendice del manuale di storia, e chi ancora propone un testo autonomo lo ha ridotto ad una sorta di pamplhet, peraltro con la pretesa di occuparsi degli argomenti più disparati, dalle carte geografiche alle fonti energetiche, dalla globalizzazione allo sviluppo sostenibile.
E qui arriviamo al vero nocciolo della questione. Cosa insegna la geografia? Senza alcuna nostalgia per i tempi in cui si imparavano a memoria le capitali, i fiumi navigabili e l'elenco delle coltivazioni di ogni area del pianeta, è evidente a chiunque abbia a che fare con l'universo scuola (e non solo) che mancano le basilari coordinate spaziali per poter comprendere il mondo globale. Dall'altro lato la comprensione delle dinamiche di tipo demografico, sociale ed economico a cui assistiamo ogni giorno richiede competenze tali che non sempre è facile fare rientrare nel percorso scolastico, indipendentemente dalle ore di lezione.
Ben venga dunque l'apertura di un dibattito come quello stimolato oggi da Riccardo Canesi, che guardi alla formazione e alle idee. Lasciamo invece fuori la retorica sindacale delle petizioni e degli orari.
Nasce oggi Scuola0.0, esperimento di un insegnante che vuole mettersi alla prova con un nuovo giocattolo. Si parlerà di scuola in tutte le sue forme, dalle politiche agli spunti offerti dalla cronaca, sperando di discutere ed imparare qualcosa. Buon divertimento...